Uomini e maree è uno dei testi a cui sono intimamente più legato. L'ho scritto tra il 2000 e il 2001 spinto da una grande sofferenza interiore. Parla della fatica di vivere, delle proprie origini negate, ripudiate, riscattate, ma non per questo meno presenti, meno condizionanti, meno amate. Parla di come si è e di come si diventa, di quanto si cambia per essere altro da ciò che siamo nati, di quanto costa riscattarsi dal destino già scritto dalle proprie radici, un fato misero, temuto, e parla di come pur riuscendoci la felicità non arrivi mai, come se fosse rimasta laggiù, ad attendere, nel luogo dal quale si è voluto fuggire.
Un giudice, un procuratore per l'esattezza, in preda a una profonda crisi esistenziale, tentando di fuggire una sofferenza divenuta insostenibile, decide di compiere un viaggio all'interno della realtà che lo circonda e della quale sente di non far parte, avulso com'è, prigioniero di ferree regole borghesi, dal mondo della strada. E così, con lo spirito del viaggiatore, inizia le proprie peregrinazioni nella notte, dentro a una città come Genova in cui niente, dopo le venti, è come sembra di giorno. Durante questa vita notturna, densa di avventure che la mentalità borghese definirebbe, coi suoi giudizi inappellabili, come minimo immorali e indecenti, l'uomo incontra Sophie, una prostituta, con la quale riscopre sorprendentemente l'amore, e con esso le proprie radici, molto prossime a coloro che caccia di giorno, lontanissime da quelle di coloro che lo circondano nelle stanze del tribunale, di casa sua o dei suoi amici. Quelle radici che gli derivano dall'essere nato in una famiglia disadattata, dalla quale si è riscattato studiando duramente, ma che tutti gli hanno sempre fatto sentire addosso come un indelebile marchio d'inferiorità. Ma amare una prostituta non è uno scherzo, e tante sono le conseguenze a cui va incontro esponendosi in prima persona, finendo infine per usare il suo potere di procuratore, ben oltre i limiti imposti da quella stessa legge che deve far rispettare, pur di vincere la partita con il suo sfruttatore. Durante tutto questo tempo il giudice capirà di sè molte cose, prenderà coscienza del proprio intimo modo di essere, della sua natura, e come in una specie di viaggio iniziatico troverà infine il coraggio di cambiare tutto, di guardare in faccia se stesso, d'abbandonare per sempre la società ipocrita dei borghesi, con la sua apparenza e le sue maschere, e ricominciare. Libero oramai dalla paura dell'incertezza, iniziare una nuova vita in cui nessuno, mai più, dovrà pretendere da lui di essere un altro. |